Oltre le residenze per anziani

Ma davvero riteniamo che le residenze per anziani siano ancora un tema di indagine? E se sì, è ancora lecito considerarlo tale o più semplicemente dovrebbe essere un ordinario soggetto di studio nelle Facoltà di Architettura, parte integrante di un’ampia cultura dell’abitare, così come teatri, musei, scuole o luoghi di lavoro?

Non è una questione marginale, ne conseguono infatti numerose implicazioni disciplinari, perché di “case per anziani”, se escludiamo l’ormai noto cohousing, ce ne sono molte, quasi sempre riconducibili a un “tipo” caratterizzato da un corridoio con alloggi e servizi a esso addossati, talvolta integrati da funzioni indispensabili al funzionamento di un’abitazione in senso lato (lavanderie, cucina, soggiorno ecc.). Anche le più pubblicate realizzazioni (ad esempio Zumthor, Coira 1993; Arets, Maastricht 1995; Mateus, Alcácer do Sal 2010 ecc.) testimoniano lo stesso principio, la tipologia abitativa resta la stessa. Migliorano le soluzioni formali, linguistiche, gli spazi domestici sono molto più ricchi, così come i materiali e i dettagli costruttivi, ma l’archetipo continua a essere il medesimo: struttura a corridoio/ballatoio di accesso agli appartamenti, disposti “a pettine” rispetto alla distribuzione principale. La casa per anziani – pur con tutte le migliorie e le attenzioni ai servizi oggi erogati – continua a essere un “deposito”, un luogo in cui invecchiare in attesa della visita di un parente o di un amico fra controlli medici e spesso inutili passatempi tutt’altro che personalizzati.

Come si può superare questi modelli, in fondo ancora istituzionalizzanti? Nonostante le linee guida europee della metà degli anni ’80 del XX secolo e alcune interessanti realizzazioni successive (ad esempio il progetto “Elder at Home” del 2004 dell’Istituto finlandese TTS [1]), in Italia un vero passo avanti si compie con l’emanazione del “pacchetto” di decreti ministeriali (DM 2521-2524/2001) definiti “Programma sperimentale di edilizia residenziale: alloggi in affitto per anziani del 2000”. Diversi gli argomenti trattati: scelta di un contesto urbano; predilezione di aree centrali a destinazione residenziale con identità riconosciuta nelle tradizioni locali; correlazione tra alloggi e sistema di assistenza; ambienti e servizi disponibili per anziani e non; descrizione dei livelli prestazionali; multigenerazionalità dei residenti; spazi comuni; sostenibilità ambientale. In sostanza si introduce quello che poi è diventato il fenomeno cohousing, anzi lo si anticipa, perché in quegli anni in Italia non si parlava nemmeno dell’ormai nota modalità abitativa scandinava. Eppure si stava costruendo un modello che riconduce inevitabilmente al cohousing: l’alloggio è più piccolo (una parte della sua superficie è sottratta da quella dell’appartamento e destinata agli spazi collettivi); viene incrementata la presenza di spazi che siano filtro tra interno ed esterno – logge, terrazzi e giardini, servizi comuni –, necessariamente articolati e stimolanti per chi vi soggiorna. Va sottolineato l’aspetto della multigenerazionalità che, non convogliando in questi edifici esclusivamente anziani, possa favorire la socializzazione tra gli utenti di differenti fasce di età.

A distanza di alcuni anni dall’emanazione della normativa italiana, oggi l’esperienza dell’abitare condiviso è proposta come la soluzione a ogni problema, viene tratteggiata come la risposta più “colta” alle esigenze dell’abitare contemporaneo in tempo di crisi economica e sociale. Eppure, sebbene le realizzazioni internazionali di numerosi esempi di cohousing dimostrino l’efficacia di questo modello, appare però semplicistico asserire che la soluzione abitativa (specialmente) per anziani sia (solo) il cohousing.

I numerosi studi compiuti negli ultimi anni dimostrano che il cohousing non è che una delle tante, non sempre classificabili, modalità abitative in condivisione esistenti in questo momento: estremamente interessante, sì, ma anche molto complicato da realizzare e gestire[2]. Gli scandinavi, gli svedesi in particolare, forti di numerose esperienze talvolta fallimentari, sanno benissimo a quali difficoltà si va incontro nel tentativo di avviare un cohousing. Esso dunque non va considerato la soluzione abitativa per gli anziani, ma deve essere inserito in un quadro più ampio: è solo una delle possibili soluzioni in uno spettro di alternative abitative, adatto certamente ad (alcuni) anziani e non solo. Ma per non cadere nell’errore di sostituire un modello abitativo con un altro, spostando l’attenzione dalle residenze per anziani ad alloggi in condivisione autogestiti, è necessario che il cohousing venga analizzato nelle sue caratteristiche costitutive, nelle modalità di gestione, studiato per i suoi aspetti dominanti di condivisione di esperienze, spazi e funzioni. Si deve pertanto necessariamente andare oltre osservando anche altre soluzioni abitative per favorire la massima molteplicità possibile[3].

Riaffiora, allora, la domanda provocatoriamente accennata in apertura: c’è ancora bisogno di parlare di residenze per anziani? C’è ancora bisogno di immaginare qualcosa di specifico per una “categoria” di utenti o non è piuttosto il caso di ripensare a residenze in cui anche l’anziano possa vivere, con persone di età differenti, senza dover necessariamente ricorrere all’allontanamento per eventuali sopraggiunti problemi o nuove necessità? Pare essere finalmente giunta l’ora di porre nuovamente al centro del dibattito disciplinare un ragionamento più esteso su cosa sia casa, cosa sia abitare, cosa sia abitare oggi, immaginando una utenza non più riconducibile a semplicistiche classificazioni.

Jacopo Gresleri

[1]http://www.housinglin.org.uk/_library/Resources/Housing/Housing_advice/Elder_at_Home_-_The_prerequisites_of_the_elderly_for_living_at_home2004.pdf

[2]     J. Gresleri, Cohousing. Esperienze internazionali di abitare collaborativo, Plug in, Busalla (GE) 2015.

[3]     Idem. Altre forme residenziali hanno elaborato l’idea di abitare che caratterizza il cohousing, lasciando però una maggiore elasticità, una maggior individualità nell’uso dei servizi comuni e nel funzionamento del complesso sistema residenziale. Mi riferisco, ad esempio, ai modelli Baugruppe, Habitat Collectif e Viviendas dotacionales già ampiamente descritti altrove.

Jacopo Gresleri (Bologna 1971) è Architetto e Dottore di Ricerca in “Architettura, Urbanistica, Conservazione dei luoghi dell’Abitare e del Paesaggio”. Svolge l’attività professionale nella città di residenza e di Docente incaricato all’Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Architettura. Da molti anni collabora con Università americane come Juror, Visiting Critic e Lecturer. Autore di saggi e pubblicazioni monografiche, la sua ricerca è prevalentemente incentrata negli ambiti di housing (collaborativo e per anziani), progettazione e recupero urbano, attività che lo ha visto coinvolto in PRIN, FAR e convegni in veste di progettista, relatore e curatore, in Italia e all’estero. Nel 2014, è stato chiamato a valutare progetti europei di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale per conto del JPICH/MiBACT.

Jacopo Gresleri ha recentemente pubblicato il libro “Cohousing: esperienze internazionali di abitare condiviso” edito da Plug_in e acquistabile a questo link.

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